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“Gerda è Gerda […]. Un talento naturale che non somigliava alle borghesi né alle proletarie, e tantomeno alle scimmie edeniche di sua madre che forse non esistevano nemmeno. Era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva , si rinnovava, accadeva ovunque, prima a Lipsia e poi a Berlino: nella Pension non lontana dal suo studentato, nella camera affittata dietro Alexanderplatz presso la vedova di guerra Hedwig Fischer e, infine, sulla branda di Max e Pauline, della Pauli, in pieno Wedding”.

 “Grazie a chi ha cercato di mettere un freno alla mia smania di documentazione, ricordandomi che stavo scrivendo un romanzo”. Parto da qui, dall’ultima pagina di questo viaggio potente e avventuroso che è stata per me la lettura di questo romanzo firmato da Helena Janeczec: “La ragazza con la Leica”. E nei ringraziamenti dell’autrice che ho ritrovato la sintesi di quest’opera, corale, trasversale, spiazzante per la ricchezza documentale: foto, testimoni, testimonianze di chi c’era, di chi ha abbracciato Gerda, in tutti i suoi ruoli (amante, compagna, amica) di chi ha sofferto per lei e con lei. Gerda era Gerda. L’energia, il coraggio, il desiderio di libertà e indipendenza.

Pagine che ho letto a perdifiato, altre che ho dovuto rileggere per rintracciarne il senso, ogni qualvolta la descrizione di un fatto privato mi ha costretto ad attingere nella memoria storica che attraversa e lega tutto il libro. Per poi rendermi conto che Gerda in questo romanzo è la nostalgia che tiene in vita tutta la storia, che tiene in vita i personaggi: le coppie, le fotografie, le coincidenze. Una presenza viva, malgrado la sua morte. Ci sono le fotografie che aprono e chiudono la narrazione,  ritratti, scatti rubati, soprattutto ci sono gli altri che ne parlano, che ne conservano memoria, chi più chi meno, con consapevolezza. 

Gerda è morta in Spagna il 26 Luglio del 1937 per le gravi ferite riportate dopo essere stata schiacciata da un carro armato a Brunette e la storia narrata da Janeczec si avvia con una telefonata che Willy riceve da Georg nel 1960 – Roma chiama Buffalo, N.Y. – a cui torna in mente la Spagna di Robert Capa con cui aveva “un’amica in comune, Gerda Taro, che nessuno oggi sa più chi era”. Sullo sfondo dell’intreccio, anche quando non viene nominato, c’è sempre Robert Capa (nelle ultime pagine a tenerlo in vita si affaccia anche suo fratello Cornell).

Nel romanzo sono tre i personaggi che in anni e situazioni diverse raccontano Gerda: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi (1938) dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l’irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Nel prologo e l’epilogo del libro dialogano con alcune foto fatte da Gerda e Robert.

Ma ci sono anche Csiki Weisz, l’aiutante dell’Atélier parigino di Capa al 37 di rue Froidevaux – eroico ciclista, a miei occhi l’uomo del destino, colui che salverà la storia  – e sua moglie Leonora Carrington, custodi di segreti e negativi appartenuti a Capa, Taro e Chim (David Seymour). Con loro si apre il mistero della valigia messicana e il suo prezioso contenuto. 

“Così, mentre i nazisti avanzano, anche Csiki sceglie il materiale che deve essere a tutti i costi sottratto alle loro grinfie. Costruisce tre scatole piatte rettangolari, le riveste di colori differenti (rosso, verde, ocra), le riempie di divisioni di cartone. Somigliano alle confezioni di un maître chocolatier, […] Ma la posto delle praline artigianali, ripone nel reticolato le prove più schiaccianti di ciò che è accaduto in Spagna – una selezione dei negativi di Capa, Chim e Taro […]. Terminato il lavoro, inforca la bicicletta. Sulle ruote appesantite dai minimi averi personali, si fa largo sulle routes nationales intasate dai parigini in fuga, pedalando fino a Bordeaux o a Marsiglia […] sta di fatto che pedala pure per la sua vita, la vita di un ebreo di Budapest gravato di un bagaglio che lo tradirebbe come complice di chi si è opposto con la fotografia alla prima guerra nazifascista sul continente”.

Tutto è sulle spalle di Csiki, che nel frattempo ha riposto il materiale in uno zaino per portarlo in bici fino a Bordeaux. L’obiettivo è imbarcare i negativi su una nave diretta in Messico. Il ragazzo sa di rischiare grosso per via delle sue origini ebree, per questo affida lo zaino a un cileno incontrato lungo la strada. Gli chiede di portare i rullini fino al suo consolato, per metterli al sicuro.

Un romanzo sì, ma così documentato, verosimile, monstre, che rende merito a Gerda Taro: il cui vero nome è Gerta Pohorylle, morta per le ferite riportate dopo essere stata investita da un carro armato a seguito di un bombardamento tedesco, pochi giorni prima del suo ventisettesimo compleanno, con la macchina fotografica al collo. Tedesca discendente da una famiglia di ebrei polacchi, origini che condivide con l’autrice del romanzo, sottolineate con un cambio di registro narrativo alla fine del libro. Nella sua breve ma intensa vita si legò nella sua permanenza a Parigi, professionalmente e sentimentalmente ad Endre Friedman (Robert Capa) che le trasmise tutta la sua conoscenza sulla fotografia, sulla professione, fu lui a metterle in mano la Leica. E fu Gerda a dare una svolta all’attività di Friedman, fino ad allora non ancora decollata, grazie all’invenzione del personaggio di Robert Capa – nome scelto perché ricordava quello del ben più noto regista Frank Capra –  tuttora ricordato fra i più celebri fotoreporter della storia (sua la nota e controversa foto del miliziano colpito a morte). 

N.B.  Gerda morirà in Spagna; Robert su una bomba in Indocina; Chim assassinato a Suez. I loro rullini spagnoli, 126, con i rispettivi negativi, 4.500, della Guerra Civile vengono ritrovati dentro una valigia in Messico nel 1995 e, solo dopo lunghe trattative, portati a New York alla fine del 2007 e resi noti più di dieci anni dopo il loro ritrovamento, esposti in mostre e raccontati in un documentario tra il 2010 e il 2012.

No, non fatico a immaginare Robert Capa e Gerda Taro su una panchina del Central Park, lei che gli dice di sistemarsi la camicia, lui che sbuffa mein General, jawohl, prendendo in giro il suo accento indelebile, e lei si irrita che debba ancora fare il buffone, il gradasso. E mentre continuano a beccarsi, passa un ragazzo su uno skateboard in braghe e maglietta così larghe che […] lo fanno sembrare un pipistrello sgargiante […]  sfrecciato a qualche spanna dal naso dei due vecchi, li azzittisce per un attimo. “Quello sarebbe stato da fotografare.” “Ach! Ormai chissà dov’è…”

Titolo: LA RAGAZZA CON LA LEICA
Autrice: HELENA JANECZEK
Editore: GUANDA 2017
Prezzo: 18 EURO
Pagine: 333

 

  •  Helena Janeczek la trovate qui

Sabrina Deligia