Il mio primo libro di Michela Murgia è stato Accabadora. Non l’ho più lasciato. Nel senso del lasciare andare un libro già letto nella lista dei ricordi. Si è intrecciato, saldato, a ricordi di una terra che non era quella di Tzia Bonaria e Maria. Ma una terra dell’anima che avevo calpestato accanto a sarte che rammentavano vite e orli ai morti “in quelle notti comuni senza nessun peccato a cui dare la colpa di essere svegli”. Storie antiche. Ed è alla notizia della sua morte, avvenuta il 10 agosto, che il mio primo pensiero è andato all’Accabadora. Un pensiero che mi aveva già fatto riprendere il libro tra le mani alla lettura dell’intervista rilasciata da Murgia al Corriere della Sera in cui annunciava la sua convivenza con il cancro. Meccanismi dell’anima.
Di Murgia si è detto e scritto tanto, anche da parte di chi non ha mai sfogliato un suo libro, romanzo o saggio che sia. Quali libri leggere? Suggerimenti in ordine cronologico, con dettagli a piacere.
LA LISTA
Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (Einaudi 2006)
Il lavoro è il protagonista di questo romanzo tragicomico di una telefonista precaria. Un libro che attinge dall’esperienza diretta dell’autrice come telefonista in un call center. La sua struttura è quella di un diario. Questo libro condurrà alla realizzazione di altre due opere, ovvero l’opera teatrale omonima con testo adattato da David Emmer, Gianluca Greco e Teresa Saponangelo, e il film del 2008 Tutta la vita davanti, diretto da Paolo Virzì, liberamente ispirato al libro. Tra gli interpreti protagonisti della pellicola citiamo Isabella Ragonese, Massimo Ghini, Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Elio Germano e la già menzionata Teresa Saponangelo.
Dall’incipit:
Deh, direbbe Silvia.
Ho iniziato a lavorare in un call center. Quei lavori disperati che ti vergogni a dire agli amici.
«Cosa fai?»
E tu: «Be’, mi occupo di promozione pubblicitaria».
Che meraviglia l’italiano, altro che giochi di prestigio.
Ma questo non è un call center comune. È un call center della Kirby. E ’sti cazzi, mica robetta!
Ho saputo subito che era il call center che cercavo, quello dove avrei potuto davvero divertirmi.
Non l’innocente sorriso del bambino davanti alla farfallina.
Direi piuttosto il sadico sorriso del bambino mentre con uno spillone fissa la farfallina al pezzetto di sughero per iniettarle la formalina. Mentre è ancora viva, ovviamente.
Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede (Einaudi, 2008)
Chiamarlo “guida” è riduttivo, questo libro è un percorso non convenzionale, pur trattando i “temi classici”: i nuraghi, i sassi levigati dal vento e il mare con i suoi 1800 km di coste. In questo suo lavoro Murgia scrittrice si rivela antropologa, archeologa e storica. Tra le pagine si incontrano miti e leggende, come quelle sulle piccole fate chiamate Janas o sul Componidori, una figura sacerdotale cavalleresca che porta armonia nelle cose secondo un ordine preciso che si manifesta nei riti di fertilità. Ma anche suggerimenti per vedere panorami mozzafiato, come la storia delle miniere e delle prime rivolte sindacali del mondo industriale. Il mare, l’acqua, l’entroterra.
Dalla premessa:
Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose strusciano impudicamente il ventre nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne (…) Questa storia è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente.
Accabadora (Einaudi 2009)
La seconda opera di narrativa di Michela Murgia viene pubblicata nel 2009 e si intitola Accabadora. Per questo libro la scrittrice nello stesso anno vince la sezione Narrativa del Premio Dessì oltre che, nel 2010, il Super Mondello e il Premio Campiello. A fare da sfondo alle vicende dei personaggi di cui l’autrice dipinge il ritratto è la Sardegna. Protagonista dell’opera è il legame tra Maria e Tzia Bonaria, legame che il mondo che le circonda fatica a comprendere come si sia instaurato. Da un lato una bambina, dall’altro una sarta, è da questo incontro che comincia, se non tutta la loro storia, almeno una significativa parte di essa.
Dall’incipit:
Fillus de anima.
E così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo tempo dopo.
Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento.
Ave Mary. E la chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011)
In questo saggio, da ex attivista di Azione Cattolica ed ex insegnante di religione, Murgia critica radicalmente il ruolo della donna nella narrazione imposta dalla Chiesa Cattolica. Punto di partenza, la rappresentazione della morte nei racconti sacri, come nei libri e nei film: sempre una morte al maschile, ma quella della donna dov’è?
Dall’incipit:
Quando avevo sedici anni recitai in un musical sulla vita di san Francesco che si chiamava Forza venite gente, dove interpretavo la serva del ricco mercante che il santo di Assisi aveva per padre. Eravamo una trentina di ragazzi e ragazze, stavamo vivendo una delle esperienze piú esaltanti della nostra vita e – contraddicendo la pretesa incoscienza giovanile – ce ne rendevamo perfettamente conto. Uno dei quadri musicali dello spettacolo prevedeva la salita al patibolo di un giovane cavaliere colpevole di aver ucciso un uomo in un duello tra figli di famiglie rivali.
Quella scena ci piaceva molto perché al condannato tagliavano la testa con un’ascia, e l’esito scenico era così realistico che il pubblico in sala regolarmente sussultava sulle sedie. La canzone che accompagnava la scena si intitolava Morire sì, ma non così e la intonava il colpevole andando verso il boia. Durante le prove il giovane sacerdote che faceva la regia aveva spiegato al ragazzo come doveva interpretarla, cioè riottoso e pieno di rabbia, ma non impaurito. L’attore improvvisato non capiva.
L’incontro (Einaudi 2012)
Il romanzo breve L’incontro è un libro che, ancora una volta, proprio come Accabadora, di cui già abbiamo parlato, ha la Sardegna a fare da sfondo alle vicende dei suoi personaggi. Protagonista in un primo tempo è Maurizio, ad essere descritta è la sua crescita, a farle da cornice i rapporti di amicizia che si instaurano alla sua età, dieci anni, tra complicità e gioco. A fare da cornice alla formazione di Maurizio c’è poi il paese in cui trascorre le vacanze estive, paese che diventa anch’esso protagonista del romanzo, poiché al centro del palcoscenico della narrazione in tutta la sua profondità.
Dal prologo:
Abbiamo giocato nella stessa strada.
È cosí che si diventa davvero fratelli a Crabas, che venire dalla stessa madre non ha mai reso parenti neanche i gatti. Benedetto sempre sia il rispetto per la carne della nostra carne, ma la strada e l’averci giocato insieme offre ai bambini una piú alta dimensione di parentela, che nemmeno da adulti sarà mai dimenticata. Non c’è niente di intuitivo nella generazione: il sangue segue percorsi torbidi e per questo nessun ragazzino crede davvero che basti condividere il cognome di un padre per rivendicarsi seme comune.
Come si è nati è una di quelle cose che bisogna farsi spiegare piú volte, e dev’essere per questo che dopo, per tutta la loro vita, molti adulti cercano di liberarsi dalle parentele casuali affermandone altre decise da sé con puri atti di volontà. Testimoni di matrimonio vengono assunti come fratelli. Padrini e madrine dei propri figli vengono eletti a parenti d’occasione.
Compari e comari…
L’ho uccisa perché l’amavo: falso! (Laterza 2013)
E’ del 2013 il saggio, scritto con Loredana Lipperini, sul femminicidio, L’ho uccisa perché l’amavo: falso! Un pamphlet il cui obiettivo dichiarato è smontare le opinioni più diffuse e correnti intorno al tema.
La citazione:
Bisogna imparare a parlare di femminicidio. Non solo i mezzi di comunicazione devono farlo. Dobbiamo farlo noi, e voi: perché tutti siamo ormai, ognuno nel proprio ambito, comunicatori. Dobbiamo imparare a riflettere per far passare il messaggio giusto. Non dobbiamo semplificare, per nessun motivo. Perché il rischio è quello che la semplificazione cannibalizzi e annienti quanto è stato fatto e il moltissimo che resta da fare.
Chirú (Einaudi 2015)
La quarta opera di narrativa di Michela Murgia è Chirú, del 2015. Un romanzo sui sentimenti e sulla loro complessità, che prende vita a partire dal passato dei due protagonisti, Eleonora e Chirú, vicini e lontani al tempo stesso, tra futuro e presente in continuo chiaroscuro.
Dall’incipit:
Chirú venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva. Era vestito da adulto e ostentava una disinvoltura sfrontata, ma sotto la giacca da orchestrale gli s’intuivano due braccia troppo lunghe per essere qualcosa di piú che goffe. Aveva un violino con sé, e chi lo aveva convocato gli aveva fatto credere che avrebbe potuto suonarlo sul palco accanto a me. Temendo l’inesperienza che gli si leggeva addosso, trovai un modo gentile per dirgli che preferivo recitare in silenzio e lui, senza mostrare alcun risentimento per quel primo battesimo di sfiducia, accettò. Si sedette nella terrazza del centro storico e mi ascoltò con la stessa attenzione degli altri presenti.
Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)
Dando prova di un’incredibile capacità dialettica, Michela Murgia usa sapientemente la provocazione, il paradosso e l’ironia per invitarci ad alzare la guardia contro i pesanti relitti del passato che inquinano il presente. E ci mette davanti a uno specchio, costringendoci a guardare negli occhi la parte piú nera che alberga in ciascuno di noi.
Dalla premessa:
Scrivo contro la democrazia perché è un sistema di governo irrimediabilmente difettoso sin dall’origine. E’ falso quello che ha detto Winston Churchill, cioè che la democrazia sia il metodo di governo peggiore eccetto tutti gli altri: la verità è che è il peggiore e basta, ma è sempre difficile dirlo apertamente, nonostante nell’esperienza quotidiana questa evidenza sia piuttosto lampante. Il libro che avete in mano nasce per dimostrare non solo che la democrazia non serve ed è anzi dannosa allo stare insieme, ma anche per provare che la sua alternativa piú sperimentata – il fascismo – è un sistema di gestione dello Stato assai migliore, meno costoso, piú veloce e piú efficiente.
Noi siamo tempesta (Salani 2019)
Sedici storie, sedici imprese, famosissime o del tutto sconosciute e le ha raccontate come imprese corali, perché l’eroismo è la strada di pochi, ma la collaborazione creativa è un superpotere che appartiene a tutti. Una tempesta alla fine sono solo milioni di gocce d’acqua, ma col giusto vento. Qui la scrittrice parla di cambiare la realtà, ma non di eroi. Illustrazioni di The World of DOT, con un fumetto di Paolo Bacilieri.
Dall’introduzione:
Le librerie e gli schermi grandi e piccoli della nostra infanzia sono pieni di storie, ma queste storie, a guardarle da vicino, si somigliano un pochino tutte. La stragrande maggioranza racconta la vicenda di un eroe solitario con un destino glorioso, spesso abbandonato da chi doveva accudirlo (come Pollicino e Mosè), cresciuto alla periferia di qualcos’altro (come Harry Potter o Luke Sky-walker) e chiamato ad affrontare mille prove per affermarsi (come Ulisse e Ercole). Su questi eroi abbiamo sognato tutti e tutte e spesso ci sono apparsi speciali perché dotati di talenti o poteri unici grazie ai quali avrebbero salvato se stessi o il mondo. Erano eroi con poche amicizie che restavano sempre gregarie, a affiancandosi ma mai intaccando il loro speciale compito eroico.
Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori 2019)
Dal podcast al libro. Scritto a quattro mani da Murgia e Chiara Tagliaferri. A illustrarlo l’artista MP5. A essere raccontate, le storie di alcune donne, le “ragazze che tua madre non approverebbe” titolo che riprende l’omonimo podcast firmato dalle stesse autrici. Tra le protagoniste ci sono le sorelle Brontë (Charlotte, l’autrice del romanzo Jane Eyre, Emily, scrittrice di Cime Tempestose, e Anne, autrice di Agnes Grey), la cantante, attrice e modella Grace Jones e l’artista Marina Abramovic, Moana Pozzi.
Dall’incipit:
Primavera del 1976. Una quindicenne bellissima con uno strano sorriso da Monna Lisa e lunghi capelli biondi aspetta l’autobus a Genova. Dovrebbe indossare la divisa delle orsoline, ma preferisce nasconderla piegata in borsa: quando esce di casa si cambia dove può e mette una minigonna. Si ferma un ragazzo su una vecchia Mini Cooper e le chiede se vuole un passaggio. Il ragazzo si chiama Antonio, ha ventitré anni ed è bello anche lui. […] (Moana Pozzi)
Morgana. L’uomo ricco sono io (Mondadori 2021)
Nel 2021 esce un secondo libro firmato Murgia e Tagliaferri, se vogliamo un secondo tempo di Morgana. Sottotitolo: L’uomo ricco sono io. Anche questa volta, una raccolta. Ad esserne protagoniste, tra le altre, Oprah Winfrey, Beyoncé e Asia Argento.
Dalla prefazione:
“Una ragazza dovrebbe avere una stanza tutta per sé e una rendita di 500 sterline l’anno”. Questa frase, che dà il titolo al celeberrimo saggio narrativo di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé, è talmente famosa da essere diventata un luogo comune. Peccato che nel citarla si fermino tuttə alla prima parte, quella della stanza, e quasi nessunə ricordi che Woolf in quel saggio parlava soprattutto di soldi, o meglio, del rapporto tra l’emancipazione femminile e i soldi, presentati come la premessa stessa della libertà. La specificazione della cifra di 500 sterline l’anno, così precisa e violenta, a moltə deve sembrare ancora oggi più volgare che parlare a tavola di sesso o di politica. I soldi sono il vero tabù da violare quando si parla di donne, perché il denaro è il potere maggiore di tutti, quindi per definizione è stato per anni solo degli uomini. Lo scopo della vita delle donne, nel frattempo, è stato quello di fare buoni matrimoni per accedere alla sicurezza di buoni patrimoni, con il sottotesto che a loro non servissero i soldi, ma solo un uomo che li avesse. Le donne non potevano avere proprietà privata perché erano esse stesse proprietà privata, prima dei padri e poi dei mariti, che sposandole facevano proprie anche le loro doti. In quel contesto Woolf, facendo forse la sua affermazione più politicamente rivoluzionaria, riporta la questione dei soldi al centro del discorso sull’emancipazione e invita le sue contemporanee a cercare prima di tutto il controllo dei propri conti, senza i quali non esiste libertà intellettuale. Se questo è vero, se davvero essere autonomə significa essere liberə, perché tuttə continuano a consigliare alle donne, oggi come allora, di sposarsi con un uomo ricco? Perché in molte famiglie si continua a non insegnare alle ragazze a gestire il denaro, facendo loro credere che farsi procurare da qualcun altro la sicurezza materiale sia un traguardo di vita?
Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi 2021)
Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la piú sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti «dovremmo dire anche farmacisto». Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di scopare di piú, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un’ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice piú nessuno.
Dall’incipit:
Nel maggio del 2020, durante la trasmissione radiofonica che conducevo a Radio Capital insieme a Edoardo Buffoni, avemmo ospite lo psichiatra Raffaele Morelli. La ragione erano certe sue dichiarazioni discutibili rilasciate nei giorni precedenti, che erano state da piú parti indicate come sessiste. Nel corso dell’intervista in cui avrebbe dovuto spiegare l’eventuale equivoco, il professore confermò invece le sue affermazioni e mentre lo incalzavo chiedendogliene conto, accadde una cosa che né io né Buffoni avevamo previsto: Morelli perse completamente le staffe e all’improvviso mi intimò “Zitta! Zitta! Zitta e ascolta! Sto parlando e non voglio essere interrotto!”. Il video, ancora reperibile in rete, divenne virale e per giorni si parlò di quell’episodio con incredulità, come se fosse un unicum comportamentale, il caso straordinario di un uomo dai nervi poco saldi che non aveva potuto sopportare di essere contraddetto da una donna.
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God Save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi, 2022)
Come fai a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo? E’ una domanda che Michela Murgia si sente rivolgere di continuo. E’ la stessa che si pongono le persone credenti LGBTIAQ+ e che si pone chiunque debba fare compromessi tra la propria coscienza e i precetti dottrinari, per esempio in merito ad aborto, eutanasia, fecondazione assistita. Per rispondere è necessario capire quali aspetti della vita e della fede siano davvero in contraddizione, e soprattutto se certi insegnamenti non siano semplicemente un’eredità storica da ridiscutere ogni giorno alla luce del Vangelo e della propria intelligenza. God Save the Queer è un audace pamphlet, popolare e coltissimo, che con lucidità ed ironia ci spiega perché si può essere persone femministe e cattoliche nello stesso tempo.
Dall’incipit:
«Come fai a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo? Non la senti la contraddizione?» Da anni ho smesso di tenere il conto delle occasioni in cui mi è stata rivolta questa domanda. Non ho smesso però di cercare la risposta, perché la questione che le sta dietro è fondata. Come si può essere femministə e persino attivistə quando si ha fede nel Dio in nome del quale si inginocchia un sistema religioso cosí patriarcale e inflessibile al cambiamento culturale? Come conciliare le proprie certezze spirituali con il dubbio di stare collaborando al mantenimento di un’istituzione maschilista plurimillenaria, che pratica la discriminazione nelle sue stesse strutture, prima ancora che nella sua dottrina? Non è una domanda per le donne, ma per ogni persona credente, perché tocca l’idea del Dio che condividiamo, ben prima di quella che abbiamo di noi singolarmente.
L’idea di Dio che la mia Chiesa professa include la mia libertà o la nega? È un’idea che mi condanna o mi accoglie? Mi giudica o mi ascolta? C’è spazio per me, c’è il riconoscimento della mia individualità? Dio mi ama come sono e vorrò essere, oppure rimarrò un disordine oggettivo nell’ordine della creazione, un’anomalia di programmazione destinata a stare ai margini, a essere guardata con sospetto, un peccato ambulante per il solo fatto di esistere cosí come sono? Queste domande, se le pongono nella loro quotidianità non solo le persone credenti LGBTQIA+, ma anche coloro che si trovano occasionalmente nella condizione di dover cercare un compromesso tra la propria coscienza e gli insegnamenti di fede, soprattutto quelli legati alla vita fisica: il sesso non generativo, l’aborto volontario, l’eutanasia, la fecondazione assistita e altre vie d’uscita dalla trappola deterministica della biologia. Le risposte sono complicate.
Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori 2023)
E’ l’ultimo libro di Murgia. Una raccolta letteraria di brevi episodi che si leggono come un romanzo impunturato dai temi che da sempre la scrittrice e femminista ha inteso prediligere: quelli che attengono l’umano nella sua complessità. Lascio la descrizione di questo suo ultimo lavoro a la stessa Murgia, così come lei lo ha raccontato su Instagram, di seguito trovate il link con la testimonianza diretta.
Da Instagram, la trascrizione:
“Quando ho preso la decisione di scrivere questo libro”, ha raccontato Michela Murgia in un video sul profilo Instagram dell’editore: “ero convinta che sarebbe stato un pamphlet, perché cercavo una modalità per elaborare l’esperienza collettiva che avevamo vissuto durante il covid. E come aveva cambiato le relazioni e il modo di rapportarsi anche con lo straordinario. Perché nella vita di tutti succedono dei casini, ma contemporaneamente, lo stesso casino di questa portata, mondialmente, non c’era mai capitato… almeno non nella mia generazione. Quando mi sono però effettivamente messa a scrivere, mi sono resa conto che il tipo di scrittura che veniva fuori era narrativa.
Per me è una cosa abbastanza strana, nel senso che io sono nata con la narrativa ma per me la narrativa è una scrittura faticosa, perché attinge direttamente all’esperienza. E io la mia esperienza cerco di proteggerla il più possibile. E cerco di proteggermi dalla mia esperienza… anche perché genera consapevolezze che spesso sono dolorose.
La scrittura confina sovente con la psicanalisi e io lo psicanalista ce l’ho già, quindi cerco di andare dallo psicanalista più che dall’editore. E quando scrivo cerco di scrivere quello che ho capito.
Qui, mentre scrivevo, mi sono resa conto che erano molte di più le cose che non avevo capito. E che la scrittura narrativa mi consentiva di dire più cose perché meno assertive. E che era giunto forse il momento di tornare a quel piano della scrittura che ti consente di dire “non posso spiegarlo e quindi lo racconto”. Quindi ho cominciato a scrivere racconti perché volevo tante storie individuali con voci diverse, generi diversi, età diverse, che fossero tutte collegate in qualche modo alla stessa grande crisi… ma ciascuno vivendo la propria dentro la maxicornice dell’anno di pandemia. Un anno di crisi che interessava tutti, ma ciascuno con i suoi strumenti e con il suo punto di vista.
Molti potrebbero storcere il naso dal davanti al fatto che la definizione di questo libro che do’ e rivendico è romanzo… perché sono dodici racconti, appunto, dove i personaggi cambiano. Tra l’altro nessuno dei personaggi ha un nome, quindi è molto difficile per il lettore, la lettrice, identificarsi almeno per chi è abituato a leggere narrativa nel senso tradizionale del termine.
Non è che io non creda nel romanzo tradizionale. L’ho scritto. Però trovo molto più affascinante in questo momento l’ipotesi di raccontare una storia comune in modo corale, ma anche dissonante… perché poi le voci cambiano. Mi sembra che per rappresentare la complessità, la pluralità di storie, sia più efficace. E l’accesso ai racconti mi ha permesso di spostare continuamente lo sguardo.
Alcuni sono scritti in terza persona, alcuni in prima… generando l’eterno equivoco del “quanto c’è di autobiografico?”. Tutto è autobiografico, niente è autobiografico. Questi sono racconti scritti perché chiunque possa immedesimare la parte oscura di sé in quella voce. Io credo che siamo tutti moltitudine e che a volte leggere libri che parlano di moltitudini aiuti a riconoscere la propria speciale identità all’interno di quella pluralità”.